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Amazzoni e Minotauri (guarda la presentazione di Aldo Masullo su youtube)


Poesie e grafiche di Lina Mangiacapre
Raffaelli Editore - Rimini
2008

Canto di miti e di e-venti
Amazzoni e Minotauri

Introduzione di Elio Pecora

I poeti possiedono le parole, in esse reinventano il mondo, germinano pensieri, rafforzano visioni. Le loro parole sono gesti, cammini universi. Sono enigmi affrontati e sciolti, esiti di una densa patita consapevolezza e insieme di uno stupore primigenio, di un innamoramento dell’essere che è insieme perdita e ritrovamento.La poesia nasce da una necessità profonda e irreprimibile di assoluto. Per ciò si manifesta con le parole, ma si rivela, per chi sappia intendere, al di là di esse, nella tensione che le spinge e le detta, nella forza segreta che le unisce.

Lina Mangiacapre, fra i molti doni, possedeva largamente il dono della poesia. Così in Venti selvaggi:” …io creo un mondo/ senza spazio e tempo/ senza vita e morte/ io voglio e posso/ un mondo dove ‘unico Dio/ sia desiderio/ e la sua compagna/ Fantasia/ un mondo senza condizionali/ …libero da pentimenti e nostalgie/ un mondo forte di super-energia/ …di libertà irridenti/ velocità che vincono/ buchi neri/ di soli precipitati/ oltre le palpebre chiuse”.

Bastano già solo questi versi a provare lo slancio e il vigore, l’urgenza di vita vera, al di là dei divieti e delle regole, che la portavano a esprimersi con così tanta passione. In più sapeva quanto l’individuo cerchi instancabilmente la pienezza e quanto quel che chiamiamo tutto sia inscindibile dall’unicità. Il tempo di questo libro, a cui si accompagnano immagini altrettanto cariche di significati pressanti e di forze incontenibili, è tempo della mente, ma anzitutto dell’anima. Un tempo in cui sono chiamati gli dei del cielo e degli inferi. Antigone e Ismene “sorelle di sangue”, le Amazzoni che “inseguono venti selvaggi, / catturano desideri/ per guerre spietate,/ …lanciano sguardi distratti/ verso abitanti confusi…”, Ade, Dio dello sprofondo, che s’acquieta nell’abbraccio definitivo. Il miro – così quello ricorrente di Icaro che tenta un inutile volo, del Minotauro e di Arianna, di Psiche che “teme/ il dissolversi della luce”, di Medusa lei stessa pietrificata, di Pentesilea che stupra Achille e lo uccide mordendolo al calcagno mortale e altri ancora reinventati e accostati in una modernità lacera e pensosa – è qui il luogo dell’umano perenne. Vi preme il presente, come unico momento dell’essere e dello stare.

Ed è il momento dell’amore cercato, della delusione che strema, della sconfitta che non risparmia, del dolore che non cede, dell’attesa, di un’umanità scontenta e distratta che avanza nei giorni della Terra verso la morte ma anche, incautamente, verso il desiderio: che sta nell’illusione di seguitare il cammino, nonostante la finale condanna.

Il tu a cui l’autrice di questo libro, così compatto e pure così fluido, composto di versi brevi, spezzati, in un alternarsi di sprezzo e di compassione, di ira travolgente e di amore illimitato, è certo l’altra da sé fermata dalla paura e dalla consapevolezza. La poesia qui non sconosce l’esistenza e le sue norme che affaticano e che mortificano ogni bramata libertà, ma procede verso un oltre che è forse la felicità, sempre negata e sempre promessa.

Così l’io si confonde con il tu per interrogarsi fino alla spietatezza:” Sono io mio simulacro?”, per affermare: “… il canto delle sirene/ mi cattura/ si infrange/ nell’oceano del desiderio/ Umano”. In un così intenso bisogno di vita pulsano la misura e il timore, perciò il rifiuto e la negazione. Icaro, “angelo e uomo”, non può altro nel suo volo che “volere precipitare”. E Orfeo, il cantore disceso nell’oltretomba e tornato senza la sposa amata, dice di sé: “…nel regno/ dei vivi/ suono la mia musica/ per svegliarli/ ma è inutile/ sono ormai/ schiavi perduti/ in una cieca/ e sorda necessità”.

Se un forte sentimento panico, come congiungimento alla natura ( anche l’oceano ama l’irraggiungibile luna), travalica la sofferenza del singolo destino, è sovrastante la visione tragica della vicenda umana e terrestre dove a nessuno è concesso di raggiungersi e bastarsi. Sarebbe anche troppo facile provare come quest’accolta di componimenti, così come le immagini che l’accompagnano, si nutra di quanto un’età di mutamenti, a cominciare dalle rivoluzioni femministe, abbia contato per Lina Mangiacapre, che di quelle età è stata una straordinaria protagonista. Ma è più esatto e giovevole entrare in queste pagine come nell’altrove della poesia, che parla una lingua durevole e snuda “ferire senza sangue”, per questo immedicabili: le ferite di chi s’avvia incontro alla verità e chiede e assicura compagnia.

Foto

Rassegna

Lina Mangiacapre – Amazzoni e Minotauri – Raffaelli editore -2008
di Piera Mattei

Lina Mangiacapre merita quest'attenzione: due personalità della cultura, Elio Pecora e Adele Cambria, hanno voluto rendere omaggio all'autrice del libro, affermandone la profonda personalità poetica. Li incontro alla presentazione, alla Bibli di Roma. Elio Pecora firma anche l'introduzione al libro, Adele Cambria una postfazione commossa in cui ricorda la lunga amicizia, racconta un evento divertente e poetico nella cornice di un giardino d'aranci bergamotti e limoni, all'ombra di una palma. Insieme a loro l'editore Raffaelli, molto convinto della sua scelta: non conosceva Lina prima di leggere queste poesie che ha trovato molto belle, così da dirsi pronto a ripetere l'esperienza con altre pubblicazioni.

C'era anche la sorella di Lina, Teresa Mangiacapra (sic!), che è rimasta per lo più silenziosa. Anche se l'editore non l'avesse ribadito era evidente a tutti, o almeno a tutti quelli che l'avevano conosciuta o anche solo incontrata sempre a fianco della sorella: è lei che ha voluto questo libro postumo, che ha contattato l'editore. Rifletto che la grande personalità di Lina trovava in lei e nelle altre donne del gruppo Nemesiache l'eco, la conferma, l'approvazione, che le erano necessarie. Lina e le Nemesiache, l'una prendeva energia dalle altre e viceversa, un modo nuovo di stare insieme tra donne artiste, ma anche una riedizione in chiave moderna del greco tiaso, ha scritto Adele Cambria.

Lina Mangiacapre e il Mito, Lina Mangiacapre e il suo Mito. Dobbiamo parlare certo delle sue poesie, ma di Lina non si può parlare – come per altri è legittimo o addirittura preferibile – ignorando il modo con cui si presenta e si rappresenta al mondo e a se stessa. Lei stessa, il suo corpo, il suo abbigliamento davano forma a idee, proposte esistenziali che avevano radici nella storia, in particolare nella storia recente del femminismo, ma in qualche modo dalla storia si allontanavano, per trascenderla appunto in creazioni dove parola e immagine si fissano con forza paradigmatica. Se qui mi soffermo a ricordare il corpo sottile, la statura aumentata da un cappello a cilindro, gli enormi occhiali a farfalla – uno schermo e una sfida – i critici formali troveranno forse da ridire, ma, tanto per intenderci, stiamo parlando di una protagonista del femminismo degli anni settanta, le forme che chiedono di essere rispettate sono altre. La corporeità, la costruzione o la libertà nel proporre la propria immagine, qui sono imprescindibili.

Sulla bandella sinistra del libro che riporta in sintesi i fatti, la vicenda artistica di Lina Mangiacapre, non compaiono, accanto al suo nome, le date della sua conclusa vicenda umana. Piuttosto si dà particolare risalto all'anno 1970, quando Lina fondò il gruppo delle Nemesiache, al 1976, quando nell'ambito degli Incontri Internazionali del Cinema di Sorrento ideò e organizzò la prima rassegna di "Cinema delle donne", al 1996, anno in cui realizzò per la Presidenza del Consiglio dei Ministri un videospot per celebrare il cinquantesimo anniversario del voto alle donne.

Nascita e morte biologica sembrano essere, parlando di lei – talvolta credo che lo siano in assoluto – dettagli che riguardano gli uffici dell'Anagrafe, non la storia di una persona. Questo è tanto più vero quando si ha a che fare con un individuo che ha in sé la forza del Mito: il mito / lo afferro e lo inchiodo / nel tempo della mia / volontà, scrive in Pentesilea e Achille. Non proprio ad apertura di libro, come è consuetudine tra le Nemesiache, ma dopo averlo scorso più volte, questi versi mi sono venuti incontro e si sono fissati come "un" possibile ritratto di Lina Mangiacapre. Un altro lo trovo in Cerchio del Labirinto, nell'ossimoro, "orgia di gelo":
Non so se il tempo / la porta sul nulla / la cappella i morti / la pioggia / sangue e fuoco / di antichi camini / possa riscaldare / dall'orgia di gelo / il mio corpo.

La prima poesia del volume è tuttavia dedicata non direttamente alle amate figure del mito bensì al vento, simbolo della libertà ma anche dell'impossibilità di radicarsi, del destino che si svolge tra le cose della terra, come fossero sollevate al di sopra della terra stessa. Trovo qui parole che torneranno con grande frequenza: bacio, baciare (mi sono persino interrogata sull'intensità di questo desiderio di contatto orale, quasi una richiesta di nutrimento, desiderio in fuga di sentirsi nutrita) capelli, galassie, Medusa, ali, volare, fuoco, Amore…

Il cielo, gli spazi. In Tremendo scoppio le metafore sono tutte prese dall'astronomia. Ma i buchi neri, ad esempio, sono veramente metafore dei movimenti e delle dinamiche nei corpi celesti o luoghi della psiche? Cito: è la fine del tempo / precipiti nel buco nero / evapori energia / altrove. Questa poesia in cui, quasi eccezionalmente, figure e racconti mitologici sono assenti, elabora un sentimento del tempo che si dimensiona all'infinità dello spazio. Il duello tra un io-io e un io-tu, l'immagine speculare-complementare, la gemella impossibile che percorre il libro, qui si risolve in una catastrofe primaria, nella scomparsa della seconda nella prima: la tua massa / si è infranta/ sulla corazza / di una impossibile / collisione / la mia repulsione / ti ha risucchiata / nel vortice di un buco nero.

In alcuni casi tuttavia sembra possibile che il "tu" sia rivolto veramente a un interlocutore, altra/altro, col quale non meno che con se stessa è ingaggiata una lotta cruenta, se non all'ultimo sangue, vedi in Pentesilea e Achille: Achille lo stupro io / e rido delle / sue labbra oscene / che si spalancano / su di me / il mito è stravolto / afferro il suo piede / mordo il suo calcagno / lo stacco lo sputo. Altrove il mito prende l'avvio da una contemplazione e dà dell'immagine in cui si immerge un'interpretazione favolistica, come nelle leggende classiche. E' il caso di La freccia dell'amazzone, una poesia che giudico tra le più belle della raccolta. L'incipit rende un paesaggio assolato e distante, il ritmo – con l'inconsueta adozione di tre versi successivi di pari lunghezza e la ripetizione del verbo – simula un lento andare a cavallo: Era l'alba, era un' altra / era una sconosciuta / le cicale cantavano / impazzite / operai pazienti / battevano sui sassi / percussioni monotone. Siamo in uno scenario urbano, o comunque urbanizzato contrassegnato com'è dal suono monotono di operai al lavoro, che si mescola al canto delle cicale; l'amazzone è assorta in una malinconia struggente, i baci del sole non riescono a scaldarla (quel freddo che sempre ritorna!).

Poi d'improvviso uno scarto, una rivelazione: il sole con tutto il suo calore la corteggia ma il desiderio dell'amazzone non è rivolto a lui, bensì all'astratta, all'irraggiungibile linea dell'orizzonte, desiderio di conquistare l'infinito, di fermare un'immagine in perpetuo allontanamento: lei voleva abbracciarla / quella linea sottile / che univa il cielo e la terra / l'orizzonte fuggiva / impaurito / la sua passione selvaggia / si spostava oltre ogni possibile / abbraccio / ma la freccia dell'Amazzone / folle d'ira / ogni volta / lo uccide / nel sangue del tramonto. L'ira dell'amazzone (di omerica memoria come la sua freccia) è ira contro se stessa, per il suo desiderio di un abbraccio impossibile, percepito come fuga impaurita dell'altro, come rifiuto. Così la sua vittoria sarà, con violenza omerica, quella di un'amante spietata e autopunitiva, ripetizione dello strazio, uccisione dell'oggetto amato, ogni giorno, all'infinito.

Dan Kempes