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Le nemesiache

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Eliogabalo o la caduta dell’androgino


atto unico di Lina Mangiacapre (Nemesi) e Adele Cambria
Ispirato da "Eliogabalo" di Antonin Artaud

Regia: Lina Mangiacapre
Musica originale: Nemesiache
Scene costumi: Maria Matteucci

Interpreti:
Eliogabalo: Lina Mangiacapre
Giulia Soemia: Conny Capobianco
Giulia Domna: Teresa Mangiacapra
Giulia Mesa: Anna Grieco
Giulia Mamea: Claudia Aglione
Giulia Aquilia Severa: Teresa Mangiacapra

Prodotto : Cooperativa "Le Tre Ghinee"
Durata. 65 minuti

IO ELIOGABALO

Non sono io che apparentemente ho cercato Eliogabalo, ma è Eliogabalo che da sempre credo è esistito in me. Adele e Artaud sono stati i tramiti.

Fili sottili tessuti da un discorso al Circeo, nella villa di Elsa de Giorgi, Adele mi chiedeva solo la musica per Eliogabalo. E questa musica è diventata in seguito testo, scrittura, logos e si è incarnata nella rappresentazione che insieme alle altre Giulie io, Eliogabalo, nata dal sole ho reso alla "Città del Sole"!!

Non era facile liberare l’androgino dalla calunnia storica: portatore di morte, vampiro assetato di sangue. L’adolescente ribelle viene ridotto a criminale, eppure la sete di Eliogabalo doveva essere di tutt’altro genere, per portarlo alla morte:non era certo il crimine o la violenza che poteva fare paura a Roma. Ho trovato la chiave nel sorriso e nel gioco di una giovinezza recisa: aveva solo 18 anni quando fu assassinato dai suoi pretoriani, insieme alla bellissima Soemia. Eliogabalus voleva ristabilire i riti di ‘Emesa’ la religione del mestruo, il suo sangue era portatore di vita. Le sue riforme tese a ridare alle donne la gestione delle leggi; è alla donna, la nata prima, che spetta fare le leggi: vengono viste dagli storici dell’epoca come manifestazioni indubbie di follia.

Ma sono gli stessi, che l’insorto Eliogabalo libera, che lo distruggeranno: gli artisti, i ballerini che fa eleggere a propria guardia del corpo, le donne. E l’androgino nella sua ricerca dell’armonia dei principi, nel suo desiderio di assoluto, verrà sezionato e smembrato o in corruttore di giovani o in stupratore di vergini. Ed è lì, ferma da sempre, la risata di Eliogabalo, moglie e marito insieme…” al posto dello scettro reggevi un ventaglio”. Ricordati, i romani aspettavano un imperatore, non una donna”. Ed Eliogabalo ascolta Giulia Mesa che pure lo ha portato al potere, indubbiamente donna, rimproverargli il suo lottare per essere ancora figlio della madre.

Difficile ridurre questo magma stilizzato, ho tentato attraverso il colore: l’oro = androgino; il bianco = sperma maschile; il rosso = mestruo femminile. Come mostrare l’ambiguità, la separazione, il doppio? Ho separato le voci dei corpi, i suoni dei gesti. Come esprimere la solitudine dell’assoluto? Ho creato un movimento incessante in Eliogabalo; una immobilità nelle Giulie. Solo Soemia, nei rari momenti di tenerezza, risponde a volte alla meteora Eliogabalis. E attraverso ricerche, ecco balzarmi avanti un’altre donna: Aquilia Severa, l’accusatrice, Eliogabalo ha stuprato una vestale!!! Si separano da lui le donne. E alla fine Giulia Mamea lo spoglia: Eliogabalo è una donna.

Lina Mangiacapre

Foto

Una lettura d’Eliogabalo, medium il teatro…di Adele Cambria

Eliogabalo ha cercato me, e non io Eliogabalo. Voglio dire che esistono personaggi, miti o temi cui ci si prepara per anni, anche inconsapevolmente, spesso soltanto vivendo, nemmeno attraverso la conoscenza letteraria, l’apprendimento, la cultura: per quanto mi riguarda, la “mi” cultura la vedo come un tessuto gracile dove si spalancano buchi, vuoti, in apparizioni, segno evidente della mancanza di filo (di tempo, di energie, di soldi) della tessitrice. Eppure ci sono – anche in condizioni simili – personaggi, storie cui ti avvii fatalmente vivendo, stratificando esperienze ed eventualmente letture in anni decisivi per la tua lotta: questo senso ha avuto per me, ad esempio, l’incontro con Didone, scoperta a trent’anni (oltre, si capisce, la capacità degli studi ginnasiali), nel momento in cui mi si presentava o rappresentava davanti l’aut-aut fondamentale nell’esistenza di ogni donna (che non sia pura entità biologica): e cioè la scelta, assoluta: seguire Enea o restare regina. Amore o emancipazione.

Per Eliogabalo no, non è stato così: era un personaggio di cui sapevo poco o nulla e quel poco si riduceva (dovrei avere vergogna a confessarlo, se la vergogna non fosse un sentimento sparito…) si riduceva alla voce Dizionario Enciclopedico Treccani, che vi leggerò qui come campione quasi esilarante del “perbenismo” della Storia… Dunque:”Eliogabalo, imperatore romano, nato nel 202, morto nel d.c…Nato da Giulia Soemia…fu fatto passare quale figlio naturale di Caracalla…nel 218 ad Emesa si autoproclamò imperatore… Nel 219 raggiunse Roma, dove introdusse il culto del dio solare Elgabal e si circondò di orientali, avidi raffinati e viziosi… Diffusosi sempre più il malcontento per il suo governo, fu ucciso a diciotto anni dai suoi stessi pretoriani”.

Tutto qui, ed io, accecata dall’antipatia più cocente (forse moralistica, non lo nego…) per quella tematica definibile grosso modo come felliniana (il Fellini del Satyricon), cioè vizio, orgia e pseudo voluttà, non avvertii neppure ceri segnali che pur emergevano dalla rozzezza della scheda: quella Giulia Soemia, per esempio, che sarebbe stata l’amante di Caracalla (amante è parola mia, si capisce, non della castigatissina Treccani, che usa l’oscena – questa sì – dizione di “figlio naturale”) e la citazione di un’altra Giulia, Giulia Mesa, che avrebbe di fatto governato Roma al posto del “degenerato” nupotino, e il riferimento ad una terza Giulia, Giulia Mamea, il cui figlio, Alessandro Severo fu dallo stesso Eliogabalo designato a succedergli…. Insomma, nemmeno questi lampeggiamenti, questi flash che pure dovevano aver sorvolato la mia sostanziale ignoranza in materia, mi avevano posto in allarme.

Fino a quando, nel 1979, un attore che conosco e stimo, Saverio Marconi, mi chiese di ridurgli alla forma di un monologo teatrale il romanzo di Artaud: “Eliogabalo e l’anarchico incoronato”. Manco a dirlo, non l’avevo letto. Lo lessi. E scoprii – nel mare, o meglio, nel movimento incessante e affascinante delle maree che si addensano in quel libro – una serie di temi che erano cresciuti dentro di me negli ultimi dieci anni attraverso le analisi e le illuminazioni teoriche di una cultura – quella delle donne – che mi rifiuto di rinnegare (anche se oggi è di moda farlo: posso criticarla, segnalarne le scorie, ma, anche volendo non potrei, non potrò mai “liberarmene”. E per fortuna).

Una serie di temi, dicevo: e, per cominciare, la relazione tra il femminile e il maschile, che Artaud ha sentito con la violenza, la rabbia e l’estasi di un maschio costretto ad essere tale (e, come tale, a mutilarsi) da una cultura che aborre: la cultura della romanità come virilità, contrapposta al fluire e al nutrire del femminile. La rappresentazione allora è data dal rapporto tra le quattro Giulie: Giulia Domna, Giulia Mesa, Giulia Soemia e Giulia Mamea, ed Eliogabalo: Eliogabalo che è una loro creatura non soltanto di sangue (partorito da Giulia Soemia, dagli amori di lei, diciottenne, con il quattordicenne Caracalla) ma anche dalla loro intelligenza politica, spregiudicatezza, scienza e alla fine – almeno per quanto riguarda Giulia Mesa e Giulia Mamea che inesorabili, porranno fine alla sua “carriera” e alla sua vita – dal loro cinismo.

Non è, intendiamoci, che il ritratto della quattro Giulie (stupendo comunque dal punto di vista letterario) mi soddisfacesse totalmente: no, perché vi risentivo dentro, ad ondate, quell’oscuro malanimo che è dei maschi, nei riguardi del femminile di cui avvertono l’indicibile superiorità, e, nel tentativo di esorcizzarla non trovano altro se non lo sfogo dell’insulto. No, non mi soddisfaceva del tutto perché il figlio (Eliogabalo) aveva bisogno di chiamare puttana la madre di cui era innamorato, visto che, nonostante tutto, nonostante l’intuizione dell’autore, di Artaud, l’alleanza tra la donna madre e il figlio maschio giovinetto è stata storicamente colpevolizzata (vedi complesso di Edipo) dalla cultura patriarcale, dalla storia del patriarcato che si sono definite fino ad ieri (fino ad oggi?) l’unica cultura, l’unica storia legittima e possibile.

E tuttavia la varietà del paesaggio femminile espresso dalle quattro Giulie, dipinto dalla ingioiellata parola di Artaud, mi affascinava. Giulia Domna, l’ava, la capostipite, che Artaud descrive “grande, incipriata di piombo, il segno di Saturno sulla fronte…pervasa di meraviglioso e di intelligenza, che mescola il sesso e lo spirito, e mai lo spirito senza il sesso e neanche il sesso sprovvisto di spirito…”: la sulfurea Giulia Mesa, “il cervello che concepisce”, e Giulia Soemia, “il tranello della voluttà”, “Soemia dai capezzoli di diamante”, che partorirà Eliogabalo, e, infine, Giulia Mamea, che finirà col tradire, convertendosi al cristianesimo, la cultura del femminile nello stesso tempo che l’Oriente, a vantaggio dell’Occidente.

E’ bastato quindi prenderlo tra le mani, questo libro di Artaud, perché ne sgorgassero, nella piena del discorso poetico, cioè nella piena espressività dell’arte, tutte le tematiche ideologiche che mi interessavano, che mi interessano: la guerra dei principii, il femminile ed il maschile, e la loro unica composizione possibile: l’androginia. L’androginia mentale, psichica, affettiva è l’unica carta infatti (io credo) che la società possa giocare ormai oggi per salvarsi: potrei schermarmi dietro Marcuse (un filosofo del resto che io non sconfesso, anche se sarebbe di moda farlo), citare la conferenza di Marcuse a Standford, nel 1974, in cui indicava appunto questo essere nuovo a due dimensioni (l’androgino originario, platonico) come l’unico abitante ipotizzabile in un futuro sottratto alla catastrofe. E la storia, la vicenda di Eliogabalo, non è altro che questo: la storia, la vicenda del fallimento dell’androgino, in una società, (quella romana, quella virile) che già lo rifiutava: e perciò – recita Eliogabalo, nel testo teatralizzato da me da un’altra donna, Nemesi, - “la pederastia non è diventata altro che un vizio…l’idolatria del fallo, che nei miei culti non era mai separato dal segno dolce della vagina, inciso sulla Pietra Nera, è degenerata in una ideologia che esprime disprezzo e paura della donna…”. E poi: “io sono l’androgino, la mia natura è affascinante e doppia, discendo da Venere incarnata. E tuttavia sono un androgino fallito, che la storia si accanirà a mutare in osceno pederasta, corruttore di giovani…o sul versante opposto del tradimento, in stupratore di vergini…” Ma a questo punto lascio la parola a Nemesi, che è poi stata la persona che ha materialmente creato questo Eliogabalo sulla scena. (Sarebbe anche leggibile come un segno del destino il fatto che Eliogabalo richiesto da un attore per sé sia stato invece risucchiato e attratto dal vortice di un femminile turbolento e scandaloso com’è quello che il gruppo femminista napoletano delle Nemesiache, che poi lo ha realizzato).

Rassegna

Teatro: "Eliogabalo" all’Orologio

Roma – Forse sarebbe anche interessante discutere con Adele Cambria la tesi di fondo del suo spettacolo, Eliogabalo in scena alla Sala Orfeo dell’Orologio; cioè che “l’androginia mentale, psichica, affettiva è l’unica carta che la società possa ormai giocare oggi per salvarsi”. “Forse sarebbe anche il caso di capire perché se la prende tanto perché l’alleanza tra la donna madre e il figlio maschio giovinetto è stata storicamente colpevolizzata (vedi complesso di Edipo) dalla cultura patriarcale”. Scansando un certo imbarazzo ci farebbe anche un piacere sapere come, ad un certo momento, si è posta quella che lei dice essere la scelta fondamentale di ogni donna, ovvero “seguire Enea o restare regina, cioè amore o emancipazione”.

Queste e molte altre questioni potrebbe essere interessante discutere, con l’accortezza di resistere al desiderio di fare dell’ironia sull’autobiografismo velato, ma non troppo, che traspare dallo spettacolo e soprattutto dalla sua presentazione. Ma poi, al fondo di tutto, c’è un interrogativo: perché mai discutere di tante cose, anche un po’ confuse, partendo proprio da questo Eliogabalo brutto, noioso, inconcludente e che non sai bene come prendere per dargli dieci righe di commento?

L’ispirazione viene dall’omonimo romanzo che Antonin Artaud dedicò alla figura del celebre imperatore romano, salito al trono a quattordici anni (nel 218 d.c.) e fatto fuori dai suoi pretoriani a diciotto, dopo quattro anni di efferatezze ed orgie, in onore di esoterici culti orientali, che esaltavano l’erotismo etero ed omosessuale, come utopica conciliazione degli opposti.

In scena vi sono quattro fanciulle del gruppo Nemesiache di Napoli, che stanche di tanto discutere sul femminismo, hanno pensato bene di “farsi attrici”. La loro prestazione artistica consiste in un’ora e un quarto di monotoni movimenti, che non sapremmo chiamare né danza né mimo. Fuori campo un maledetto ed eterno playback recita il testo della Cambria con voce monocorde: dei suoi pregi letterari non sapremmo dire, poiché la noia era tanta che ascoltare diventò impossibile.

Maurizio Giammusso
Corriere della Sera
6 gennaio 1989

Dan Kempes