Storie migranti. Viaggio tra i nuovi confini
La storia delle migrazioni è storia di soggetti in movimento, i quali, per così dire, fanno migrare o rendono migrante la storia. È dunque una pluralità composita e irriducibile a unità di tante storie migranti, portate da donne e uomini diversi. E quando la storia diventa plurale, la descrizione – una narrazione che si serve di immagini, inseguendo l'impossibile compito di ridonarcela - è anche uno dei modi più densi per riflettere su di essa.
Storie migranti è un libro di racconti, ma è soprattutto un percorso che l'autrice ci invita a fare cercando alcune delle trame più significative del nostro presente, solitamente nascoste e non ascoltate. Un viaggio, da est a sud, che inizia a Belgrado, tra le esistenze precarie dei tanti rifugiati che la abitano, e si conclude in Sicilia. Lampedusa, l'isola degli arrivi; Vittoria, il lavoro nelle serre tra ritmi infernali; Agrigento e le altre città dei richiedenti asilo; Portopalo e il più grande naufragio nel Mediterraneo dalla fine della Seconda guerra mondiale; l'eco della Libia e dei suoi campi di detenzione nelle voci di chi è arrivato in Italia.
foto di Sergio Riccio
da: Sergio Riccio, Bagnoli anno zero. Catalogo della mostra, Napoli, Città della scienza, 10 luglio - 3 agosto 2003. [Napoli], Bagnoli futura, 2003, [foto 32]
Federica Sossi insegna all'Università di Bergamo. Tra i suoi libri: Nel crepaccio del tempo; Testimoniare la Shoah e Autobiografie negate. Immigrati nei lager, resoconto delle interviste svolte all'interno dei Centri di detenzione.
(dalla quarta di copertina)
Alla fine devo ammettere: dire qualcosa di teorico sul perché si rinunci alla teoria non è facile. Per me, impossibile.
È da alcuni anni che ho iniziato a cercare donne e uomini e a parlare con loro. Non un dialogo. Oppure, solo il tentativo, maldestro a volte, di ripristinare le leggi a me note del dialogo. Loro parlano, io ascolto. Non so perché loro parlino, me lo sono sempre chiesta, ma lo fanno, so invece perché io ascolti. Per una sorta di impossibilità a vivere il mondo, così come ci è toccato da qualche anno in destino. A loro e a me. Ma con una differenza assoluta. La mia impossibilità è fatta di idee, di parole, di amici, di riferimenti letterari, di citazioni di libri, di immagini alla televisione, di riunioni e manifestazioni, e anche di quella teoria che potrei riversare in questa introduzione e che forse non vale la pena o è troppo complicato riversare. La loro è fatta pure di idee, di parole, di amici, di riferimenti letterari, di citazioni di libri, forse come la mia di tutto questo, talvolta di qualcosa di meno, talvolta di qualcosa di più, è fatta però di una materialità a me sconosciuta. Un mondo accanto. Un altro pianeta. Da un altro pianeta, era questo il titolo che avevo pensato all'inizio per raccogliere questi racconti. Una citazione di Hannah Arendt. E per giorni ho pensato a un'introduzione, necessaria al fine di pubblicare il libro e di spiegare il perché di questa scrittura, che ruotava tutta intorno a quel titolo. Poi ho rinunciato, a quel titolo e a quella introduzione, non scritta. «Come se provenissero da un altro pianeta», Arendt lo diceva delle storie dei sopravvissuti alla Shoah, e della loro impossibilità a essere accolte e ascoltate da chi, pur avendo vissuto la guerra, l'aveva vissuta radicato o sradicato in questo pianeta. Non volevo, alla fine, che le storie ascoltate degli uomini e delle donne che ho cercato e incontrato si portassero dietro l'ombra lunga di quella storia. Giustificarsi rispetto a un paragone, dicendo che si tratta di un'immagine che dovrebbe farci riflettere, ma elencando le infinite differenze rispetto a quell'immagine, è cosa vana, e in fondo, in questi tempi che sembrano essere nostro destino, anche pericolosa. Meglio evitare le immagini e i paragoni, le ombre lunghe della storia con i suoi revisionismi, meglio cercare radice solo nel presente. Già, il presente. Da un altro pianeta avrebbe comportato anche l'idea che il nostro presente non sia un presente di intreccio. Che sia necessario davvero spostarsi in un altro pianeta per ascoltare donne e uomini parlare.
Non so perché lo facciano, ma dopo i primi momenti di esitazione loro raccontano, a lungo, in questo pianeta e di questo pianeta, io a volte provo a ridere delle mie domande, provo a cercare un contatto che vada al di là del loro racconto e ci riporti in una situazione di parità. Ma loro continuano a raccontare. È come se le mie domande, dopo i primi attimi di imbarazzo, aprissero uno spazio, enorme, in cui parte della loro vita potesse finalmente riversarsi.
(da: Introduzione p. 5-6)
foto di Sergio Riccio
da: Sergio Riccio, Bagnoli anno zero. Catalogo della mostra, Napoli, Città della scienza, 10 luglio - 3 agosto 2003. [Napoli], Bagnoli futura, 2003, [foto 51]
Confini, invece, era il titolo a cui pensavo mentre stavo ancora scrivendo queste storie e in parte ancora ascoltandole. Confini avrebbe racchiuso in parte anche la mia storia. Solo nel titolo, perché non ho intenzione di raccontarla. Ho vissuto per anni al confine. Ai confini. Perché quel luogo era attraversato da frontiere molteplici. Una casa, quasi l'ultima prima del bosco, quand'ero bambina, quasi l'ultima prima della Jugoslavia da bambina e da adolescente, e un confine di lingue, una lingua che non ho mai parlato e non so perché, la lingua di quasi tutti coloro che ci stavano accanto, parenti o estranei, minoranza slovena in Italia, ma lì, accanto a casa, maggioranza, e la lingua di tutti oltre confine, a due passi oltre il bosco. Ma che cos'è un confine attraversato? In un andare e venire, continuo, di chi sta oltre il bosco e di chi sta prima del bosco.
(da: Introduzione, p. 9)
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