Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile.
Il capitalismo non è più sostenibile. A meno di cambiamenti radicali nel modo in cui la popolazione mondiale vive, produce e gestisce le proprie attività economiche - con i consumi e le emissioni aumentati vertiginosamente - non c'è modo di evitare il peggio. Cosa fare allora? Il messaggio è dirompente: si è perso talmente tanto tempo nello stallo politico del decidere di non decidere, che se oggi volessimo davvero salvarci dal peggio dovremmo affrontare tagli così significativi alle emissioni da mettere in discussione la logica fondamentale della nostra economia: la crescita del PIL come priorità assoluta. "Non abbiamo intrapreso le azioni necessarie a ridurre le emissioni perché questo sarebbe sostanzialmente in conflitto con il capitalismo deregolamentato, ossia con l'ideologia imperante nel periodo in cui cercavamo di trovare una via d'uscita alla crisi. Siamo bloccati perché le azioni che garantirebbero ottime chance di evitare la catastrofe - e di cui beneficerebbe la stragrande maggioranza delle persone - rappresentano una minaccia estrema per quell'élite che tiene le redini della nostra economia, del nostro sistema politico e di molti dei nostri media."La via d'uscita che intravede Naomi Klein non è una Green Economy all'acqua di rose, ma una trasformazione radicale del nostro stile di vita. "La buona notizia è che molti di questi cambiamenti non sono affatto catastrofici; al contrario, sono entusiasmanti".
Naomi Klein nata a Montreal nel 1970, è l’autrice dei due bestseller internazionali No logo e Shock Economy. Collabora, tra gli altri, con il “Gardian” e il “New York Times”.
Naomi Klein, foto di Anya Chibis
Foto da: www.dirittiglobali.it
Molti di noi hanno una sorta di rifiuto di fronte alla realtà del cambiamento climatico: lo consideriamo per una frazione di secondo e subito distogliamo lo sguardo.
Oppure ripieghiamo su qualche battuta («Ecco altri segni dell'Apocalisse!»), che è un altro modo di guardare da un'altra parte.
O, magari, dopo aver osservato finiamo per raccontarci qualche storia rassicurante su come l'intelligenza degli uomini saprà escogitare un qualche miracolo tecnologico che aspirerà via l'anidride carbonica dall'atmosfera o farà magicamente diminuire il calore del Sole. E anche questo, come ho scoperto durante le ricerche per il mio libro, è solo un altro modo di girarsi dall'altra parte.
Oppure guardiamo, ma cerchiamo di essere troppo razionali sulla situazione («dollaro per dollaro, è più efficiente concentrarsi sullo sviluppo economico piuttosto che sul cambiamento climatico, dato che la ricchezza costituisce la miglior protezione di fronte agli eventi meteorologici estremi»), come se avere in tasca qualche dollaro in più possa fare molta differenza quando la vostra città finirà sott'acqua. E anche questo è un modo di voltarsi dall'altra parte, a cui sono inclini gli specialisti della politica.
O magari guardiamo, ma riteniamo di essere troppo impegnati per occuparci di una cosa tanto lontana e astratta; e questo pur vedendo la metropolitana di New York City allagata e le persone aggrappate sui tetti delle proprie case a New Orleans, e sapendo che nessuno - soprattutto chi è più vulnerabile - può dirsi al sicuro. E per quanto questo atteggiamento sia del tutto comprensibile, è anch'esso un modo di girarsi dall'altra parte.
Oppure guardiamo, ma ci diciamo che l'unica cosa che possiamo fare è concentrarci su noi stessi. Meditiamo, facciamo la spesa nei mercatini dei coltivatori diretti e smettiamo di usare l'auto, ma accantoniamo l'idea di provare a cambiare quei sistemi che stanno rendendo inevitabile la crisi: non funzionerà mai, ci raccontiamo, l'«energia negativa» in gioco è troppa. Di primo acchito potrebbe sembrare che stiamo guardando nella direzione giusta, dato che molti di questi cambiamenti nel nostro stile di vita fanno parte della soluzione; eppure, abbiamo ancora un occhio ben chiuso.
O forse guardiamo - e lo facciamo per davvero - ma poi, inevitabilmente, sembriamo dimenticare. Ricordiamo e poi dimentichiamo di nuovo. Con il cambiamento climatico è così: riusciamo a trattenerlo in mente. I motivi per cui siamo soggetti a questa sorta di amnesia ecologica intermittente sono del tutto razionali: neghiamo la realtà della crisi in tutta la sua forza perché temiamo che finirebbe per cambiare tutto. Ed è proprio così...
c'è la possibilità che il cambiamento climatico inneschi invece una serie di forme di trasformazione sociale, politica ed economica molto diverse e di gran lunga meno desiderabili.
Ho trascorso gli ultimi quindici anni immersa nelle ricerche sulle società che affrontano shock estremi (causati da tracolli economici, disastri naturali, attacchi terroristici e guerre), esaminando in profondità i mutamenti che esse subiscono in questi periodi di tremendo stress e i modi in cui questi eventi cambiano - talora in meglio, ma perlopiù in peggio - il senso collettivo di ciò che è possibile. Come ho argomentato nel mio ultimo libro, Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri, nel corso degli ultimi quarant’anni gli interessi delle corporation hanno sistematicamente sfruttato queste varie forme di crisi per far approvare politiche che arricchiscono una piccola élite (abolendo regolamentazioni, tagliando la spesa sociale e imponendo privatizzazioni su larga scala della sfera pubblica). Questi shock, inoltre, hanno fornito il pretesto per restrizioni estreme delle libertà civili e per diverse agghiaccianti violazioni dei diritti umani.
Oggi si intravedono molteplici segni di come il cambiamento climatico non costituirà un'eccezione rispetto a questa tendenza: di come, cioè, anziché suscitare soluzioni con una concreta possibilità di prevenire il riscaldamento catastrofico e di proteggerci dai disastri ormai inevitabili, la crisi, una volta di più, verrà sfruttata per riporre risorse ancora maggiori nelle mani dell'1 per cento della popolazione. Le prime fasi di questo processo sono già visibili. In diverse regioni del mondo le foreste pubbliche vengono trasformate in silvicolture e riserve private…. C'è un fiorente commercio di «futures meteorologici», grazie al quale le società e le banche possono scommettere sui cambiamenti climatici come se tali disastri devastanti fossero un gioco …
Il cambiamento climatico non è un «problema» da aggiungere alla lista di cose di cui preoccuparsi, insieme all'assistenza sanitaria e alle tasse. È una sveglia per la civiltà, un potente messaggio, espresso nella lingua degli incendi, delle inondazioni, delle siccità e delle estinzioni, che avverte dell'esigenza di un modello economico completamente nuovo e di un altrettanto nuovo modo di condividere il pianeta. …
Qualcuno dice che non c'è tempo per questa trasformazione: la crisi è troppo pressante e l'orologio corre. Sarebbe avventato, concordo, sostenere che l'unica soluzione alla crisi consiste nel rivoluzionare la nostra economia e ristrutturare la nostra visione del mondo partendo dalla base - e che, se il nostro obiettivo è al di sotto di questo livello, non vale neppure la pena di muoversi. In verità, c'è ogni sorta di misure in grado di ridurre in modo sostanziale le emissioni, misure che potrebbero e dovrebbero essere adottate fin da adesso. Eppure, noi non lo stiamo facendo! La ragione è che pian piano, evitando di combattere queste grandi battaglie finalizzate a cambiare la nostra direzione ideologica e a ricalibrare l'equilibrio dei poteri nelle nostre società, si è venuto a creare un contesto in cui ogni risposta forte al cambiamento climatico appare politicamente impossibile, specie in tempi di crisi economica (cioè, ormai, sempre).
La strategia proposta in questo libro è quindi diversa: pensare in grande, scendere in profondità e allontanare il polo ideologico da quel soffocante fondamentalismo di mercato che rappresenta il più grande nemico per la salute del pianeta. Se riusciamo a spostare - anche solo di poco - il nostro contesto culturale, ci sarà un po' di margine di manovra per quelle politiche riformiste assennate che, perlomeno, potranno iniziare a far sì che i valori dell'anidride carbonica atmosferica prendano a muoversi nella direzione giusta. Dopodiché, dato che una vittoria tira l'altra, chi può dire come andranno a finire le cose? …
Ho capito di avere un problema quando mi sono ritrovata a mercanteggiare sulle sorti delle stelle di mare. Quelle rosse e porpora sono onnipresenti sulla costa rocciosa della Columbia Britannica, dove vivono i miei genitori, dove è nato mio figlio e dove ho trascorso circa metà della mia vita adulta. Per i bambini più grandi l'incontro con questi animali è sempre un piacere, perché è possibile raccoglierli con delicatezza e guardarli bene da vicino. «Questo è il miglior giorno della mia vita!» ha proclamato la mia nipotina di Chicago, Miriam, di sette anni, dopo un lungo pomeriggio trascorso fra le pozze d'acqua lasciate dalla marea.
Nell'autunno del 2013, però, hanno iniziato a circolare dei racconti su una strana forma di deperimento che stava causando la morte di decine di migliaia di stelle di mare lungo la costa del Pacifico. Chiamata «sindrome del deperimento delle stelle di mare», portava gli esemplari di diverse specie a disintegrarsi vivi: i loro corpi vibranti si fondevano in globi distorti, con le braccia che si staccavano e la parte centrale che perdeva forma. Gli scienziati erano sconcertati.34
Leggendo queste storie, mi sono trovata a pregare perché questi invertebrati resistessero ancora per almeno un altro anno (abbastanza, cioè, perché mio figlio potesse guardarli meravigliato). Poi, però, sono stata colta da un dubbio: forse è meglio che non veda mai una stella di mare - di certo non una in queste condizioni...
Una volta, quando questo genere di paure mi assalivano penetrando attraverso la corazza della mia negazione del cambiamento climatico, facevo tutto il possibile per allontanarle, cambiando canale o cliccando su un altro link. Ora, invece, cerco di coglierle, di percepirle. Credo di doverlo a mio figlio; ciascuno di noi lo deve a se stesso e agli altri.
Ma come dovremmo comportarci con questa paura che viene dal vivere su un pianeta che sta morendo, un pianeta che ogni giorno rendiamo meno vivo? Per prima cosa, accettiamo che questa paura non se ne andrà via. È una risposta del tutto razionale all'insopportabile realtà di vivere in un mondo morente, un mondo che molti di noi stanno contribuendo a uccidere facendo cose come preparare il tè, andare a fare la spesa in macchina e sì, è vero, anche avere figli.
Quindi, usiamola. La paura è una risposta utile alla sopravvivenza: ci fa correre, saltare, può farci fare cose sovrumane. Ma abbiamo anche bisogno di qualcosa verso cui correre, una cosa senza la quale la paura è solo paralizzante. Così, il vero trucco, l'unica speranza, è lasciare che il terrore di un futuro invivibile sia lenito e controbilanciato dalla prospettiva di costruire qualcosa di molto meglio di ciò che molti di noi, finora, hanno osato sperare.
(da pag. 12-46, Introduzione: In un modo o nell’altro, tutto cambia)
Naomi Klein
foto da: www.elle.com
Ciò che sta emergendo è un nuovo tipo di movimento per i diritti riproduttivi, un movimento che non combatte solo per i diritti riproduttivi delle donne ma per quelli dell’intero pianeta: per le montagne decapitate, le valli sommerse, le foreste spianate, le falde freatiche sottoposte alla frantumazione idraulica, i fianchi delle colline devastati dalle miniere a cielo aperto, i fiumi avvelenati, i «villaggi del cancro». E tuttavia la vita ha il diritto di rinnovarsi, rigenerarsi, e di risanarsi…..
A volte questi processi vengono chiamati «resilienti», ma è più appropriato definirli «rigenerativi»: la resilienza, infatti, pur essendo uno dei più grandi doni della natura, è un processo passivo, ovvero la capacità di assorbire i colpi e rimettersi in piedi; la rigenerazione, d'altro canto, è qualcosa di attivo, in quanto significa che diventiamo pienamente partecipi del processo di massimizzazione della creatività della vita.
Si tratta di una visione molto più ampia della vecchia eco-critica, che poneva l'accento sulla piccolezza e sulla riduzione dell'impatto (o «impronta») dell'umanità. Oggi quest'opzione semplicemente non è più disponibile, perlomeno non senza implicazioni da genocidio: siamo qui, siamo tanti e dobbiamo agire mettendo a frutto le nostre abilità. Possiamo, tuttavia, cambiare la natura delle nostre azioni affinché vengano sempre a far crescere la vita anziché a indebolirla con l'estrazione. … Questo spirito è già all'opera nella promozione e nella protezione della vita di fronte alle tantissime minacce che la negano o che non ne tengono conto. Ha persino raggiunto quel ruscello dove ero solita fare le mie camminate durante la gravidanza. All'inizio, quando avevo scoperto il sentiero, pensavo che i salmoni che ancora nuotavano nel torrente si trovavano lì soltanto grazie all'indomabile forza di volontà che contraddistingue la loro specie; poi però, parlando con alcuni abitanti del posto durante le passeggiate, sono venuta a sapere che, dal 1992, i pesci venivano aiutati da un vivaio situato qualche chilometro più a monte, nonché da gruppi di volontari che lavoravano per ripulire l'acqua dalle scorie lasciate dal taglio del legname e assicurarsi che ci fosse abbastanza ombra per proteggere i giovani avannotti. Ogni anno, centinaia di migliaia di avannotti di salmoni rosa, argentati, keta o reali vengono rilasciati nei torrenti vicini. E una sorta di partnership tra i pesci, la foresta e le persone che condividono questa parte speciale del mondo.
Così, circa due mesi dopo la nascita di mio figlio, la nostra famiglia è andata in gita fino al vivaio, ora alimentato da microturbine e dall'energia geotermica. Anche se Toma era così piccolo che riusciva a malapena a vedere sopra il marsupio, volevo che incontrasse qualcuno di quei minuscoli salmoni che erano stati così importanti per me prima che lui nascesse. …
Questo vivaio non era un allevamento ittico o una fabbrica della fertilità: non c'era nulla che venisse creato da zero o subisse una forzatura. Si limitava a dare una appoggio per mantenere attivo il ciclo della fertilità. Ed era un'espressione concreta del concetto secondo cui, da qui in avanti, chi prende non deve soltanto restituire, ma deve anche prendersi cura.
(da pag. 586-593, Il diritto di rigenerare)
Gli enormi investimenti globali necessari per far fronte alla minaccia climatica - per adattarci, con umanità e giustizia, a quegli eventi meteorologici estremi che ormai abbiamo già scatenato, e per scongiurare quel riscaldamento davvero catastrofico che possiamo ancora evitare - ci offrono un'altra chance di cambiare tutta questa situazione e di riuscire dove i movimenti del passato avevano fallito. Questi investimenti globali, infatti, potrebbero portare con sé quella redistribuzione equa delle terre agricole che avrebbe dovuto far seguito alla liberazione dalle dittature e dal dominio coloniale; potrebbero portare i posti di lavoro e le case sognate da Martin Luther King; potrebbero portare lavoro e acqua pulita alle comunità dei nativi; potrebbero infine portare l'elettricità e l'acqua corrente in ogni baraccopoli sudafricana. …
Il fatto che i nostri più eroici movimenti per la giustizia sociale abbiano vinto le loro battaglie legali ma abbiano subito cocenti sconfitte sul fronte economico costituisce la precisa ragione per cui il nostro mondo resta oggi così radicalmente ingiusto e iniquo: quelle sconfitte, infatti, ci hanno lasciato un'eredità di continua discriminazione, di doppi standard e di povertà radicata, una povertà che si aggrava con ogni nuova crisi. Allo stesso tempo, però, le battaglie economiche che quei movimenti hanno vinto sono la ragione per cui oggi abbiamo ancora alcune istituzioni - dalle biblioteche ai trasporti e agli ospedali pubblici - basate sulla folle idea che una vera eguaglianza significa uguale accesso ai servizi fondamentali che permettono di condurre una vita dignitosa. E la cosa più importante è che tutti questi movimenti del passato, in una forma o nell'altra, stanno combattendo ancora oggi: per la piena eguaglianza e il riconoscimento dei diritti umani di ogni persona, a prescindere dall'etnia, dal genere e dall'orientamento sessuale; per una decolonizzazione autentica, con la riparazione dei danni; per la sicurezza alimentare e i diritti dei contadini; contro il dominio delle oligarchie e per difendere ed espandere la sfera pubblica.
Pertanto, il cambiamento climatico non ha bisogno di un qualche movimento nuovo di zecca uscito dal nulla che abbia magicamente successo dove gli altri hanno fallito. Piuttosto, il cambiamento climatico, essendo la crisi di più vasta portata mai creata dalla visione del mondo estrattivista - una crisi che pone l'umanità di fronte a una scadenza rigida e inflessibile - può diventare la forza, la grande spinta, in grado di mettere insieme tutti questi movimenti ancora in vita (come un fiume in piena, alimentato da innumerevoli torrenti, che raccoglie questa forza collettiva per giungere infine al mare). «Lo scontro fondamentale, che sembrava essere quello del colonialismo e dell'anticolonialismo, o magari del capitalismo e del socialismo, scade già d'importanza» scriveva Frantz Fanon nel suo capolavoro del 1961, I dannati della terra. «Quel che conta oggi, il problema che sbarra l'orizzonte, è la necessità di una ridistribuzione delle ricchezze. L'umanità, sotto pena di esserne sconvolta, dovrà rispondere a questa domanda.» Il cambiamento climatico rappresenta la nostra chance di porre infine rimedio a quei vecchi insuccessi, di sanare quelle ferite ormai in suppurazione: di portare a termine, cioè, il lavoro incompiuto della liberazione.
Per vincere, sarà senz'altro necessaria la convergenza di diverse forze su una scala mai vista prima. Questo perché, anche se non esiste alcuna analogia storica che corrisponda in modo perfetto alla sfida del cambiamento climatico, comunque ci sono determinate lezioni da apprendere dai movimenti rivoluzionari del passato. Una di queste è che quando hanno luogo grandi mutamenti nell'equilibrio del potere economico, sono sempre il risultato di straordinari livelli di mobilitazione sociale. In quei frangenti, l'attivismo diventa qualcosa che non è compiuto da una piccola tribù all'interno di una singola cultura, che si tratti di un'avanguardia di radicali o di una sottocategoria di ingegnosi professionisti…
E quindi, com'è possibile cambiare una visione del mondo, un'ideologia indiscussa? In parte, occorre scegliere bene le prime battaglie politiche: occorre scegliere, cioè, quelle che siano in grado di trasformare le regole del gioco, che non mirino semplicemente a cambiare qualche singola legge ma a cambiare gli schemi di pensiero. Ciò significa che una lotta per imporre una tassa carbonica minima potrebbe ottenere molti meno risultati che, mettiamo, la formazione di una grande coalizione per chiedere un salario minimo garantito. Questo non solo perché un salario minimo, come abbiamo visto, permette agli operai di dire di no ai lavori nel settore delle energie sporche, ma anche perché il processo stesso di argomentare a favore di una rete di sicurezza sociale universale viene ad aprire lo spazio per un dibattito più generale sui valori, su ciò che ognuno di noi deve agli altri in forza della nostra comune umanità e su ciò che per noi, come collettività, è più importante della crescita economica e dei profitti delle corporation….
Fondamentalmente, il compito consiste nell'articolare non solo un insieme alternativo di proposte politiche, ma anche una visione del mondo alternativa in grado di competere con quella che si trova al cuore della crisi ecologica: una visione radicata nell'interdipendenza anziché nell'individualismo, nella reciprocità anziché nel predominio, nella cooperazione anziché nella gerarchia. Questo è necessario non solo per creare un contesto politico che ci permetta di ridurre drasticamente le emissioni, ma anche per aiutarci ad affrontare quei disastri che ormai non possiamo più evitare. In quel caldo e tempestoso futuro che abbiamo ormai reso inevitabile con le nostre passate emissioni, una fede incrollabile nell'uguaglianza dei diritti di ogni persona e la capacità di provare una profonda compassione saranno infatti le uniche cose che separeranno la civiltà dalla barbarie.
Ma c'è anche un'altra lezione che possiamo trarre dai movimenti di trasformazione del passato: che, cioè, ognuno di essi si rendeva conto che il processo di cambiamento dei valori culturali – per quanto un po’ sfuggente e difficile da quantificare – aveva un importanza centrale per il loro lavoro.
(da pag. 607-613, Un salto di civiltà)